Svastiche al quartiere Barca


Dopo il veto razzista della Questura di Bologna sulla manifestazione del 24 gennaio contro il massacro di Gaza, ecco ora le croci celtiche, le svastiche, le scritte di minaccia tracciate con vernice azzurra sulle serrande di alcuni negozi gestiti da egiziani al quartiere Barca. E non è la prima volta che i neofascisti minacciano e danneggiano negozi di immigrati.

Queste espressioni d’odio razziale non sono un caso. La campagna antiaraba promossa dalla parte più retriva della Curia bolognese, dai partiti di destra e dal PD sta producendo i suoi frutti avvelenati.

Oggi è importante non accettare intimidazioni e non cadere in provocazioni. Di certo, Bologna non si identifica con quella manciata di benpensanti che firma le petizioni della Lega, di AN o di Forza Nuova (in tutto circa mille firme!), né con le squadre di neofascisti che vanno in giro a minacciare, intimidire e picchiare. Alla loro “guerra di civiltà” rispondiamo con la mobilitazione sociale e la solidarietà antifascista! Non passeranno!

Intervieni venerdì 23 gennaio al dibattito sugli Squadrismi di ieri e di oggi.

Partecipa alla manifestazione del 24 gennaio contro il massacro di Gaza.

Vedi anche Incidenze e Infoaut.

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Solidali con il popolo di Gaza, contro ogni apartheid. Anche nel salotto buono


Sab 24 gen 09 > P.zza dell’Unità

Il sabato successivo al corteo nazionale organizzato a Roma per il 17 gennaio, Bologna scenderà nuovamente in piazza contro la mattanza nella Striscia di Gaza. Alcuni giorni fa, per conto di un’assemblea partecipata da comunità migranti, centri sociali, sindacati di base, reti e realtà del movimento cittadino, è stata data comunicazione in questura per un corteo che doveva partire da Piazza dell’Unità e percorrere via Matteotti e via Indipendenza terminando in Piazza Maggiore. Poco dopo le 17, i fedeli musulmani, maggioritari nelle comunità arabe, non possono non osservare la preghiera del tramonto, che era stata perciò prevista in Piazza XX Settembre durante una sosta del corteo.

La Questura di Bologna ha decretato venerdì 16 che «una preghiera nell’ambito di una manifestazione non si può fare». Così il corteo contro il massacro di Gaza del prossimo 24 gennaio a Bologna dovrebbe partire solo dopo le 17, cioè dopo la preghiera islamica. Ma non basta. A dimostrazione che la preghiera non c’entra, la manifestazione non potrà lo stesso entrare in centro: «è vietata tutta la T del centro storico e Piazza Maggiore» ed è autorizzato «solo un breve tratto da Piazza dell’Unità a Piazza XX Settembre e poi ritorno da Piazza XX Settembre a Piazza dell’Unità» [circa 700 metri]. Insomma, nessuna visibilità per le atrocità che vengono commesse contro la popolazione palestinese. Non in centro, non nel salotto buono, non tra le luci delle vetrine e dello shopping. Vedi Zic 1 e 2.

Come in tanti paesi occidentali – Germania, Francia, Inghilterra, Stati Uniti – anche in Italia la presenza di rilevanti comunità mussulmane non è un fatto per nulla nuovo o recente. Chi soffia oggi sul fuoco dello “scontro di civiltà”, da Alleanza Nazionale a Forza Nuova e alla Lega, solo per squallido opportunismo elettorale, per avvantaggiarsi di paure istintive verso lo “straniero”, compie un’azione irresponsabile e incivile di discriminazione. Anche quelle gerarchie religiose che credono che la loro religione sia un fatto identitario e nazionale, servono un Dio d’odio.

Noi non preghiamo. Ma crediamo che in una manifestazione pubblica ognuno debba esprimersi come sente e vuole, con il proprio linguaggio, la propria cultura, le proprie memorie, e anche quindi con la preghiera. Se una preghiera islamica viene fatta davanti a una chiesa cristiana, secondo noi non ci può essere alcuna “sfida” o “offesa”. Qualcuno ha detto: “Non pregherete in questa o quella chiesa, ma in spirito e verità” (Vangelo di Giovanni 4). Migliaia di vittime civili ferite o uccise, lasciate morire per le strade, senza cibo, senza acqua, senza casa, sotto continui bombardamenti, impaurite, agonizzanti, disperate: questa è una verità che abbiamo tutti sotto gli occhi.

Noi non siamo religiosi. Ma porteremo in piazza il nostro antirazzismo e la nostra ostilità e determinazione alla resistenza contro ogni muro, contro ogni razzismo, contro ogni apartheid. Perché altre parole non conosciamo per definire le politiche di uno Stato confessionale come Israele ossessionato dalla demografia, che confina e massacra da decenni un popolo di diversa cultura e religione colpevole solo di esistere entro un territorio che quello Stato chiama «terra promessa». E il 24 gennaio resistenza vorrà dire anzitutto non cadere nella meschina provocazione razzista della Questura di Bologna che cerca di creare artificialmente tensione per limitare la partecipazione al corteo. Vuol dire denunciare in città la negazione istituzionale della libertà di manifestare e della libertà d’espressione, soprattutto quella di comunità migranti che si vogliono escludere dalle strade e piazze centrali dove Bologna si dà la propria ipocrita rappresentazione di ordine, legalità e opulenza. Vuol dire consolidare i percorsi di lotta e di autorganizzazione con i migranti e i non garantiti.

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Squadrismi di ieri e di oggi


Mentre continuano ogni giorno gli assalti squadristi di chiara matrice politica (Prato, Biella) o razziale (Como), diventa indispensabile sviluppare una consapevole vigilanza antifascista e riflettere sulla fenomenologia storica dello squadrismo, che già Luigi Fabbri nel 1922 definiva lucidamente «
l’offensiva combinata delle forze illegali e legali». Ottima e condivisibile è dunque l’iniziativa organizzata dalla Lista Reno per il 23 gennaio a Bologna: un dibattito su

SQUADRISMI DI IERI E DI OGGI
Ven 23 gen 09 h.21 > in Via Battindarno n. 123
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Saverio Ferrari, Le nuove camicie brune


Ripubblichiamo da Indymedia Lombardia l’anticipazione di alcune pagine dell’ultimo libro di Saverio Ferrari Le nuove camicie brune. Il neofascismo oggi in Italia, edito dalla Biblioteca Franco Serantini, nelle librerie il prossimo aprile. È una breve storia politica della croce celtica:
dalla Divisione delle Waffen Ss Charlemagne all’Oas, da Jeune Europe al Fuan…

La croce celtica ha origini che si perdono nel tempo. Non vogliamo qui disquisire circa l’epoca in cui apparve per la prima volta o sulla natura della sua provenienza, cristiana o pagana. Incentreremo la nostra attenzione esclusivamente sull’uso che se ne fece a partire dal secondo conflitto mondiale.

Comparve per la prima volta nel 1944 come mostrina speciale creata per i volontari francesi nelle Waffen-Ss della futura Divisione Charlemagne. I tedeschi inizialmente non l’autorizzarono, ma fu comunque subito adottata da un’unità della Charlemagne, all’epoca ancora una Brigata: la Compagnia Flak che fu impiegata a Monaco nella difesa contraerea. L’intenzione era di assumerla come mostrina ufficiale della Divisione, ma non si ebbe il tempo, data la fine della guerra e della Charlemagne stessa, che combatté l’ultima battaglia, prima di arrendersi, a Berlino attorno al bunker di Hitler.

In questo antefatto la ragione storica per cui la croce celtica divenne il principale emblema delle organizzazioni neofasciste francesi fin dall’immediato dopoguerra. Non a caso fu proprio un ex appartenente alla Charlemagne, René Binet, cultore delle sua “gesta eroiche” (editò anche un bollettino, “Le combattant europeén”, che riproduceva quello dei volontari francesi nelle Ss), nonché autore di alcuni libelli violentemente razzisti (Théorie du racisme e Contribution à une éthique raciste), a introdurla come stemma distintivo delle organizzazioni cui diede vita: il Parti républicain d’union populaire, nel 1946, e il Mouvement socialiste d’unité française, che nonostante l’ambiguità della denominazione, venne sciolto nel 1949 per incitamento alla violenza nazista.

La croce celtica fu poi il simbolo di Jeune Nation, fondata alla fine del 1949 dai fratelli Sidos, propugnatrice di uno Stato totalitario fascista. Un’organizzazione, passata alla storia soprattutto per le spedizioni squadriste contro i militanti e le sedi del Partito comunista, entro cui confluirono a partire dalla metà degli anni Cinquanta numerosi veterani provenienti dalla fallimentare guerra d’Indocina. Fu sciolta dal governo Pflimlin nel 1958 dopo un attentato dinamitardo contro l’Assemblea Nazionale. Sempre con questo simbolo si costituirono in seguito il Parti nationaliste (sempre nel 1958), con i reduci di Jeune Nation, e nell’estate del 1960 il Front de l’Algérie française (Faf), che raccolse diverse migliaia di coloni in Algeria, e il Front national pour l’Algérie française (Fnaf), sotto la guida di Jean-Marie Le Pen e del colonnello Thomazo (detto “naso di cuoio”). Il Parti nationaliste ebbe vita brevissima. Si dedicò principalmente a una attività clandestina e terroristica, prima di vedere confluire gran parte dei propri aderenti nei ranghi dell’Oas.

L’Oas (Organisation de l’armée secrète) fu costituita a Madrid nel gennaio del 1961 dai fautori del mantenimento della presenza coloniale francese in Algeria, tra loro Jean-Jacques Susini e Pierre Lagaillarde. Rappresentò senza ombra di dubbio la più importante formazione terroristica che la Francia abbia mai conosciuto. Animata dai settori oltranzisti dell’esercito francese, contrari alla decolonizzazione, e dall’estrema destra, si rese responsabile il 21 aprile del 1961 del cosiddetto “putsch d’Algeri”, sotto la guida dei generali Salan, Challe, Jouhaud e Zeller, tentando la presa militare della città. L’emblema anche in questo caso era rappresentato dalla croce celtica, tracciata sui muri e innalzata sulle barricate. Lo slogan: “L’Algérie française”.

L’Oas perpetrò numerosissimi attentati sia in Francia che in Algeria. Secondo alcune stime, tra il maggio 1961 e il settembre 1962, furono almeno 2.700 le persone uccise dall’Oas, di cui circa 2.400 algerini. Tentò anche di assassinare il 22 agosto del 1962 a Parigi il presidente della repubblica francese, il generale Charles De Gaulle. Da una sua costola nacque, qualche anno dopo, l’Aginter Press, una finta agenzia di stampa, con sede a Lisbona, dietro la quale in realtà furono attivi in chiave anticomunista e contro le lotte di liberazione nazionale degli anni Sessanta e Settanta, soprattutto in Africa, neofascisti, mercenari e agenti dei servizi segreti portoghesi e statunitensi. Uno degli snodi operativi a livello internazionale di quella “strategia della tensione” che, attraverso stragi e attentati, interessò pesantemente l’Italia.

A sostenere l’Oas in Europa, come attivo supporto politico e logistico, fu Jeune Europe, fondata nel dicembre 1960 dal belga Jean Thiriart, ex combattente nelle Waffen-Ss. Una vera e propria organizzazione transnazionale, costituitasi anch’essa sotto il segno della croce celtica, finanziata generosamente dai monopoli agricoli e minerari francesi, belgi e olandesi, allarmati dai processi di decolonizzazione in Congo e più in generale in Africa. Aprì diverse sedi nei principali paesi europei. In Italia vi aderì Ordine nuovo.

Fu dunque Jeune Europe a esportare la croce celtica in Italia, che divenne negli anni Settanta il simbolo delle organizzazioni giovanili dell’Msi, del Fronte della gioventù e del Fuan, la struttura universitaria, che nel 1975 realizzò le prime bandiere gialle con la croce celtica nera.

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Telefascisti all’arrembaggio


Il gran carrozzone del neofascismo nazionale è arrivato in questi giorni anche a Bologna. È recente la notizia della presentazione anche nella sede di CasaPound Italia – Bologna del Dossier del Blocco Studentesco (il braccio studentesco di CPI) sui fatti di Piazza Navona del 17 ottobre 2008. Con la solita cura e buona volontà, i “fascisti del terzo millennio” si sono adoperati per diffondere il verbo, usando le varie sedi dell’organizzazione per presentare il Dossier.

Senza entrare nel merito della discussione su quello che è realmente accaduto quel giorno in piazza Navona (l’ottima ricostruzione dei compagni della RAM e le testimonianze di tutte le persone presenti in piazza, a parte loro, sono più che sufficienti), non stupisce il tentativo dei neofascisti di cercare in ogni modo di creare un ‘caso’ intorno ai fatti di piazza Navona. Per il movimento nazionale noGelmini quello di P.zza Navona è stato un incidente di percorso a cui poi sono seguiti un dibattito politico autonomo, una continua mobilitazione sui provvedimenti Gelmini-Tremonti, la costruzione di ampi spazi di critica e di conflitto, la matura riaffermazione di un deciso antifascismo. Per i giovanotti di CPI e del Blocco, invece, P.zza Navona ha rappresentato il più alto punto di mobilitazione politica raggiunto dal fronte neofascista sul tema dell’istruzione: una dozzina di ragazzotti con dei bastoni tricolore in mano, il meglio della gioventù italica accompagnata dalle italiche forze dell’ordine.
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Sab 17 gen h.15 a Roma > manif per la Palestina


Sab 17 gen h.15 a Roma > manifestazione per la Palestina

Chiunque abbia una minima sensibilità antifascista non può certo apprezzare i cartelli con la stella di David equiparata alla svastica che sono spuntati qua e là in tante manifestazioni contro il brutale massacro di Gaza. Tuttavia, per noi sarebbe stato impossibile non scendere in piazza e lo faremo anche il 17 gennaio (per prenotare il pullman da Bologna si può telefonare al numero 3409892393).
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Il sangue e la celtica

Inauguriamo questa sezione del blog dedicata ai testi, film o altro tipo di documenti, che riteniamo utili allo sviluppo della riflessione sulle forme di discriminatorie attuali, sui "fascismi" vecchi e nuovi.

Da Militant, riportiamo la recensione al libro "Il sangue e la celtica" di Nicola Rao, con l’invito di andare a vedere anche i (numerosi) commenti sul blog, in cui si sviluppa un dibattito interessante.

 

 
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Più o meno due
anni fa usciva “La fiamma e la celtica”, primo libro della trilogia di
Nicola Rao sulla storia del noefascismo italiano. Il libro non aveva
emozionato; una cronistoria vista da un giornalista di destra, dei vari
partitini e movimenti neofascisti. Nulla di nuovo, si potrebbe dire. E
infatti il saggio fu accolto calorosamente dai vari camerati di tutta
Italia. Convegni, dibattiti, presentazioni del libro. Nicola Rao e il
direttore della collana, Luca “ciccio” Telese, i nuovi alfieri di un
giornalismo finalmente non asservito alla cultura antifascista delle
tanto odiate istituzioni.

Ma tutto era
destinato a cambiare col nuovo volume della trilogia, il secondo, “Il
sangue e la celtica”. E infatti questo nuovo saggio ha dato il via ad
una isteria collettiva negli ambiti neofascisti a dir poco
sconcertante. Subito uscito il libro, i vari caporioni del neofascismo
hanno gridato al complotto. Ma come, lo stesso autore tanto osannato,
tanto coccolato dalle varie anime nere, prima fra tutte casapound,
adesso viene rinnegato? Ma vediamo perché…

Innanzitutto il nuovo tomo si presenta molto più interessante del primo. Se il primo
era una già letta e riletta descrizione delle varie anime del
neofascismo, questo si propone un diverso obiettivo. Capire, cercare di
rileggere la stagione dello stragismo, e in particolare gli anni che
vanno dal 1969 al 1974, sotto un’altra luce. E questa volta il metodo
utilizzato da Rao funziona. Da una parte l’autore da voce ai diretti
interessati, ai protagonisti di quella stagione politica,
intervistandoli, facendoli parlare liberamente senza censure e senza
interviste di comodo. Un racconto di ampio respiro da parte dei
protagonisti dell’epoca. Dall’altra, il giornalista riporta tutta una
serie innumerovole di stralci delle inchieste giudiziarie e delle
sentenze a cui è arrivata la giustizia italiana fino ad oggi su quegli
anni. Sono i due strumenti con cui cercare di arrivare alla verità;
verificare convergenze e distorsioni fra il racconto dei magistrati e
quello di chi è indagato o è stato già condannato. Per confrontare le
due verità, cercare di trovarne una terza, non sul piano giuridico ma
su quello storico. Una verità storica a cui non può e non deve arrivare
un giudice, ma a cui Rao ha teso sin dall’inizio. L’obiettivo e il
metodo usato quindi convincono.

Fin qui, insomma,
il libro. Un libro interessante che consigliamo, perché, anche se il
giornalista è dichiaratamente di destra, ci convince appunto questo
metodo utilizzato.

L’altro aspetto interessante, e a dir poco grottesco, del libro sono state, come abbiamo  accennato,
le reazioni scomposte di tutta l’area neofascista italiana. Ora, delle
due l’una. O Nicola Rao è un bravo giornalista, finalmente libero da
quella vulgata antifascista che per tanto tempo ha imbavagliato la
cultura italiana, come hanno detto per il primo libro, oppure è un
personaggio asservito al complotto giudo-pluto massonico come hanno
riferito in questi giorni. Facendoci, ad onor del vero, schiattare
dalle risate. E si perché questi fascisti del 2000 sono una fonte
inesauribile di buon umore collettivo.

Ma vediamo il perché di questo dietro front repentino.

Le analisi che fa Rao giungono sostanzialmente alle stesse conclusioni cui è giunta tutta
la controinformazione prodotta in quegli anni, dalle associazioni delle
vittime delle stragi ai dossier prodotti dal movimento, fino, buon
ultimo, anche ad un certo corso della giustizia, che, senza incolpare
giuridicamente nessuno, ha fatto ricadere su quell’area la provenienza
di determinati attentati terroristici rimasti insoluti. Solo che è
appunto il metodo utilizzato che rende queste conclusioni più
interessanti. Non più le indagini dei magistrati asserviti allo stato
antifascista, strumento della repressione. Non più il lavoro di
controinformazione dei compagni, che è di parte a prescindere, e quindi
non potrà mai essere obiettivo. No, questa volta sono i diretti
interessati a parlare e a confermare la mano fascista dietro quelle
stragi. E quando non si arriva ad ammettere determinate responsabilità,
ecco che l’autore si fa forte delle prove, a volte inconfutabili, che
arricchiscono il quadro.

Quindi, potremmo
dire che è stato prodotta una ricerca che segna un punto fermo su di
chi sia la responsabilità di quegli eventi.

Per tutta risposta, i neofascisti italiani, toccati nel profondo da certe
dichiarazioni, sono letteralmente impazziti. Hanno cominciato ad
attaccare il giornalista, insultandolo, provocandolo, minacciandolo,
senza mai, e ribadiamo, MAI, entrare nel merito delle ricerche
prodotte.  Il gran capo di Casapound, Gabriele Adinolfi,
già simpatico maneggione della cassa di Terza Posizione ai bei tempi
che furono, è stato quasi preso da infarto fulminante. Centinaia di
insulti gratuiti verso l’autore, accusato di essere il braccio della
“Sperling & Kupfer” e della collana diretta da Telese, portatore
delle solite tesi sulle trame nere.

Ci spiegassero dunque perché non credere alle testimonianze dei diretti interessati,
ci dicessero dove sono state dette falsità, rispondessero alle ricerche
con altre ricerche. Perché non credere nelle prove prodotte da chi, in
vario modo, ha cercato di capire di più su quella stagione? Dai
magistrati ai movimenti, dalle associazioni delle vittime agli storici,
la verità che emerge è una ed una sola: Il braccio armato della
strategia della tensione è stato il neofascismo. Volutamente o
all’oscuro di disegni politici pensati dall’alto, i neofascisti sono
stati per anni la lunga mano dello stato per reprimere i conflitti di
classe che si producevano nel paese. Sono stati il braccio armato del
partito del golpe, apertamente ammesso da tutti i diretti interessati
nel libro.

Non si altrerassero tanto quindi i nostri amati camerati, pensassero piuttosto
a spurgarsi dalla fogna dalla quale provengono prima di poter parlare e
dire come la pensano su queste vicende.

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Sinistra democratica e CasaPound


La Rete dei Comunisti ci segnala un documento che dimostra fino a che punto la “sinistra istituzionale” sia arrivata al ridicolo se non direttamente all’orrido e alla confusione mentale. Ecco un brano “senza vergogna” di una proposta di Sinistra democratica (una corrente dei DS che oggi persegue l’unificazione dei partiti alla sinistra del PD in un unico soggetto politico):

Dico che la sinistra deve prendere il tema di petto e farne la propria bandiera; propongo – senza pretese di originalità – che la sinistra, nelle vesti dell’ass. Per La Sinistra, si faccia promotrice di una campagna di civiltà. Chiedo ai nostri dirigenti di mettere tutti noi in condizione di poter fare la nostra parte: le strade possono essere molte, ma io mi sento di proporre che nei prossimi mesi – prima e durante la campagna elettorale per le europee, nel Lazio come in altre regioni – si raccolgano firme a sostegno di un progetto tanto ambizioso quanto semplice e lineare: il MUTUO SOCIALE, un’idea di cui sinceramente vorrei poter rivendicare la paternità, un progetto che vorrei fosse tutto nostro – made in left – ma che, senza vergogna, dobbiamo condividere con chi da anni ne ha fatto il proprio cavallo di battaglia, con la destra sociale di Casa Pound.

Così, per far «superare il pregiudizio ideologico», subito dopo interviene tal Guido Allegrezza del Circolo SD “Tommaso Frasconi” che rimanda al suo geniale personal blog dove si può apprendere che «essere democratici ed antifascisti oggi significa riconoscere i movimenti neo fascisti come soggetti politici e come interlocutori», oppure dove si può leggere della sua frequentazione di CasaPound e delle birre bevute con il «leader» Gianluca Iannone, di cui «non si può non apprezzare la capacità creativa ed organizzativa, oltre che il suo indubbio carisma».

La parola epoca (dal greco epochè) significa l’arrestarsi del movimento storico in una configurazione. Questi politicanti di SD non si sono resi conto che l’epoca della fine delle ideologie è finita e la storia si è rimessa a camminare. E come marci CasaPound si è visto in Piazza Navona

D’altra parte, come osserva Militant in un documento sul Sacco di Roma e la soluzione di Alemanno, il mutuo sociale non cambia nulla. Alemanno ha deciso di accontentare i propri amici di CasaPound e rendere effettiva la soluzione del mutuo sociale. O forse CasaPound ha offerto ad Alemanno una formula vuota e pretestuosa per favorire gli speculatori anziché riproporre l’edilizia popolare o calmierare in qualche modo il mercato degli affitti. Comunque sia, chi non ce la faceva a pagare l’affitto, e saranno sempre di più coloro che faranno fatica, non potrà certo permettersi di comprare una casa, anche con un mutuo agevolato.

Vedi anche Bologna prende casa.

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Il tricolore dell’Infamia


Presentato il 23 giugno scorso, il progetto di legge 1360 prevede l’istituzione dell’«Ordine del Tricolore», un modo per dare la pensione ai repubblichini di Salò e riconoscerli come forze combattenti italiane equiparate ai partigiani.
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Gaza: una questione di confini


Riceviamo e pubblichiamo il comunicato del Coordinamento migranti Bologna e provincia in solidarietà alla popolazione di Gaza.

Una questione di confini

Quello che sta accadendo a Gaza non è una guerra di religione né una guerra etnica e neppure uno scontro di civiltà. È una questione di confini. Confini e muri reali come quello alto 8 metri che divide le città palestinesi da Israele, che trasformano decine di migliaia di palestinesi in lavoratori clandestini nello stato che oggi li attacca. Per questo condanniamo senza appello quello che sta succedendo in questi giorni a Gaza: quella del potentissimo esercito israeliano contro la popolazione palestinese è un’offesa che deve cessare immediatamente. Il massacro che si sta compiendo e gli anni di embargo e confinamento hanno trasformato Gaza in un enorme centro di detenzione a cielo aperto, dove le vite si consumano in silenzio e i diritti non valgono nulla. Di fronte a tutto questo ci uniamo alla rabbia e all’indignazione di quanti hanno manifestato in questi giorni, a Bologna, in Italia e in tutto il mondo, a fianco della popolazione palestinese. Esprimiamo la nostra solidarietà con forza, ma lo facciamo senza tradurre il linguaggio della solidarietà nel linguaggio dell’identità. Non solo per via delle strumentalizzazioni di quelle parti politiche che approfittano delle differenze religiose per alimentare logiche di segregazione e razzismo, ma perché in questi anni abbiamo lavorato duro per andare al di là delle identità, per rompere i confini che dividono le lavoratrici e i lavoratori. Siamo dalla parte di coloro che in Palestina vivono, lavorano e muoiono non in nome di un’appartenenza religiosa o nazionale, ma perché pensiamo che in gioco non è soltanto la fine di un’occupazione odiosa e di azioni militari criminali, ma anche la capacità di superare proprio un orizzonte nazionale che ha sin qui causato solo morti e distruzione e che mostra in Palestina il suo volto più brutale e violento. La questione palestinese è una questione di confini. La limitazione della libertà di movimento è la stessa per cui migliaia di uomini e donne attraversano ogni giorno i confini di Israele e non solo di Israele per lavorare, costretti allo sfruttamento pur di sopravvivere. È una storia che conoscono bene i migranti, a prescindere dalla loro appartenenza etnica o religiosa. È una storia che conoscono bene profughi e rifugiati, che questo brutale attacco sta moltiplicando esponenzialmente e che – ovunque clandestinizzati e privati di ogni diritto e tutela – alimenteranno le fila di quanti in Europa e nel mondo sono considerati solo come braccia da sfruttare, detenere ed espellere. La lotta degli uomini e delle donne palestinesi per difendere la propria vita deve poter comunicare con le lotte che qui e ora i migranti stanno portando avanti per difendere il proprio futuro. E coloro che, italiani e migranti, oggi si mobilitano per la Palestina non potranno ignorare, domani, le lotte che i lavoratori e le lavoratrici migranti stanno portando avanti, al di là dei confini comunitari e religiosi, contro la legge Bossi-Fini e il pacchetto sicurezza che proprio in questi giorni sarà discusso in Senato.

Coordinamento migranti Bologna e provincia
www.coordinamentomigranti.splinder.com

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