Inno alla razza!?… Non è reato!


Bologna, 24 aprile 2008. Mentre Bologna si preparava a ricordare il sessantatreesimo anniversario della Liberazione, destava sdegno in città la pubblicazione sui quotidiani locali di una provocatoria inserzione firmata da un ben noto assicuratore novantenne, Michele Tossani. Si trattava di una sorta di “inno alla razza” per salutare il nuovo governo di destra: “l’Italia si muova, si scuota e si sacrifichi per ritornare ai fastigi di quando ci sentivamo di far parte di una razza forte, pura e maestra di vita”.

Non si tratta però di propaganda o istigazione all’odio razziale. Lo ha deciso qualche giorno fa il Giudice per l’udienza preliminare con sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste ed è lecito in Italia pubblicare annunci pubblicitari inneggianti alla «razza pura». Né da notizia, con un pizzico di compiacimento, il
“Resto del Carlino”.

Ovviamente nessun politico o giornalista ha trovato la voglia e la dignità di ricordare che, circa sessantacinque anni fa, Michele Tossani era membro delle Brigate nere fasciste e si distinse, al fianco dei soldati nazisti, in… «arresti arbitrari» (oggi forse si direbbe “torture”, ma in Italia non c’è il reato di tortura…). Vedi ad esempio qui. All’epoca, Tossani faceva parte di una «Compagnia autonoma speciale» affidata a un professionista delle sevizie, il sergente Renato Tartarotti, e operante in una casa di Via Siepelunga detta “Villa triste” perché vi si torturavano i prigionieri… (vedi Luciano Bergonzini, La svastica a Bologna: settembre 1943-aprile 1945, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 30 e 43).

Nella Compagnia autonoma speciale di Renato Tartarotti questi erano i metodi di tortura ordinari contro i prigionieri: «la vittima veniva prima percossa da sei o sette individui e quindi stesa su un tavolaccio e colpita sulle piante dei piedi con leve di ferro; quindi energumeni le saltavano addosso per passeggiarle sul corpo; lo bruciacchiavano con i mozziconi delle sigarette o con carta accesa. Tartarotti con una autentica bacchetta da direttore d’orchestra batteva il tempo; mentre Tossani intimava ai disgraziati di parlare» (deposizione di un testimone al processo contro Tartarotti, riportata in Mirco Dondi, La lunga liberazione: giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 1999, pp. 205-206 nota 40).

Sul sito dell’ANPI di Pianoro si può leggere la testimonianza di Sugano Melchiorri: «Non trovandomi, i fascisti arrestarono mia moglie e suo padre e poi, con loro dietro, andarono in via Speranza 183 a prendere anche mio padre e lo caricarono sul camion mezzo nudo. Li portarono tutti e tre dentro a “Villa triste”, in via Siepelunga, dove furono costretti ad assistere a tutte le torture che Tartarotti e la sua banda facevano a Stenio Polischi: videro che gli foravano gli occhi e altre parti del corpo con dei lunghi aghi e altre atroci torture che è bene non descrivere. Mio padre e mio suocero furono bastonati a sangue, quasi fino alla morte, tanto che entrambi morirono di sofferenze subito dopo la liberazione».

Un lettore del romanzo Asce di guerra tramanda un ricordo del giovane Tossani che fino a qualche decennio fa era ben vivo nella memoria dei bolognesi più anziani: «… però Tossani che girava in via Indipendenza con la pistola in bella mostra minacciando di far saltare la testa a destra e a manca (credo anche a mio nonno, ma non sono sicuro), quello sì me lo hanno raccontato» (T.G., novembre 2000).

Oggi, i giornalisti in cerca di notiziole colorite, ormai del tutto incapaci di effettive analisi della realtà, sono tra i complici peggiori del crescente degrado etico e intellettuale.

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