Arditi del popolo


Ripubblichiamo da “Umanità nova” n. 16 del 26 aprile 2009 un quadro storico dell’esperienza degli Arditi del Popolo perché, come dicevano gli antichi, “la storia è maestra della vita” o, come si dice oggi, “chi non ha passato non ha futuro”.

Arditi del popolo

Fondati a Roma gli ultimi giorni di giugno del 1921 da una scissione dell’Associazione nazionale Arditi d’Italia, per iniziativa dell’anarchico Argo Secondari (ex tenente dei reparti d’assalto nella prima guerra mondiale), gli Arditi del popolo si proposero di opporsi manu militari alla violenza delle squadre fasciste. Dopo mesi di spedizioni punitive, le masse popolari colpite dallo squadrismo accolsero la loro nascita con entusiasmo. Il moltiplicarsi dei crimini fascisti, portarono le classi proletarie a vedere concretizzarsi nella nuova organizzazione quella volontà di riscossa che trasse origine soprattutto negli strati meno politicizzati della classe lavoratrice dal puro e semplice istinto di sopravvivenza.

La comparsa degli Arditi del popolo rappresentò indubbiamente, per il proletariato italiano, il fatto eclatante dell’estate 1921. Sia costituendosi ex novo che appoggiandosi alle sezioni della Lega proletaria (l’associazione reducistica legata al PSI e al PCd’I) o a formazioni paramilitari preesistenti (quali gli Arditi rossi di Trieste o i Figli di nessuno di Genova e Vercelli), si aprirono in tutta Italia sezioni di Arditi del popolo, pronte a fronteggiare militarmente lo squadrismo fascista. Il nuovo governo, presieduto da Ivanoe Bonomi, guardò al fenomeno ardito popolare con estrema preoccupazione, poiché la comparsa delle formazioni armate antifasciste rischiava di affossare l’ipotesi della realizzazione di un trattato di tregua tra socialisti e fascisti, quello che fu, nemmeno un mese dopo, il “Patto di pacificazione”, fortemente desiderato dal presidente del Consiglio.

Il 6 luglio 1921, presso l’Orto botanico di Roma, ebbe luogo un’importante manifestazione antifascista alla quale presero parte migliaia di lavoratori e la cui eco arrivò fino a Mosca: la “Pravda” del 10 luglio ne fece infatti un dettagliato resoconto e lo stesso Lenin, favorevolmente colpito dall’iniziativa e in polemica con la direzione bordighiana del PCd’I, non ebbe dubbi a indicarla come esempio da seguire.

Dopo questo imponente raduno, la struttura paramilitare antifascista divenne, nel volgere di pochi giorni, un’organizzazione diffusa capillarmente. Le linee di espansione dell’associazione seguirono, principalmente, le direttrici che dalla capitale conducono a Genova (Civitavecchia, Tarquinia, Orbetello, Piombino, Livorno, Pisa, Sarzana, La Spezia) e ad Ancona (Monterotondo, Orte, Terni, Spoleto, Foligno, Gualdo Tadino, Iesi). Ma anche in molti altri centri al di fuori di queste due vie di comunicazione gli Arditi del popolo riuscirono a costituirsi in gruppi numericamente consistenti. Rilevanti furono, a riguardo, quelli del Pavese, di Parma, Piacenza, Brescia, Bergamo, Vercelli, Torino, Firenze, Catania e Taranto. Ma anche in alcuni centri minori gli Arditi del popolo riuscirono ad organizzarsi efficacemente.

Prendendo in considerazione le sole sezioni la cui esistenza è certa, l’organizzazione antifascista risultava strutturata, nell’estate del 1921, in almeno 144 sezioni che raggruppavano quasi 20 mila aderenti. Insieme alle adesioni arrivarono anche i primi successi militari: le difese di Viterbo (che vide la cittadinanza stringersi attorno ai militanti antifascisti per respingere l’assalto degli squadristi perugini) e di Sarzana (nei cui scontri restarono uccisi una ventina di fascisti), organizzate dagli arditi del popolo dei due centri, disorientarono e incrinarono la compagine mussoliniana: le due anime del fascismo individuate da Gramsci, quella urbana – più politica e disponibile alla trattativa – e quella agraria – essenzialmente antipopolare e avversa a ogni compromesso – giunsero a un passo dalla scissione.

Ma, violentemente osteggiati dal governo Bonomi, gli Arditi del popolo non ricevettero, tranne qualche eccezione, il sostegno dei gruppi dirigenti delle forze del movimento operaio e nel volgere di pochi mesi ridussero notevolmente il loro organico, sopravvivendo in condizioni di clandestinità solo in poche realtà tra le quali, Parma, Ancona, Bari, Civitavecchia e Livorno; città in cui riuscirono, con risultati differenti, a opporsi all’offensiva finale fascista nei giorni dello sciopero generale “legalitario” dell’agosto 1922. Già nell’autunno precedente, comunque, l’azione congiunta di governo e magistratura aveva dato i suoi frutti: le sezioni dell’associazione si erano ridotte a una cinquantina e gli iscritti a poco più di seimila.

Il motivo di questa brusca battuta d’arresto non va però ricercato solamente nell’atteggiamento delle autorità. I provvedimenti bonomiani contro i corpi paramilitari (che danneggiarono le sole formazioni di difesa proletaria)1, le disposizioni prefettizie, gli arresti, le denunce e lo stesso atteggiamento della magistratura (ispirato alla politica “dei due pesi e delle due misure”), non sarebbero stati possibili o comunque pienamente efficaci se le forze politiche popolari avessero sostenuto, o quantomeno non osteggiato, la prima organizzazione antifascista. Ma esse, per ragioni differenti, abbandonarono al proprio destino la neonata struttura paramilitare a tutela della classe lavoratrice.

Tolta la piccola frazione terzinternazionalista, il PSI, il principale partito proletario, oltre a fare propria la formula della resistenza passiva, si illuse di poter siglare un accordo di pace duraturo con il movimento mussoliniano (il cosiddetto “patto di pacificazione”) e, con la quinta clausola di questo patto, dichiarava la propria estraneità all’organizzazione e all’opera degli Arditi del popolo:

“Ogni azione, atteggiamento o comportamento in violazione a tale impegno e accordo è fin da ora sconfessato e deplorato dalle rispettive rappresentanze. Il partito socialista dichiara di essere estraneo all’organizzazione e all’opera degli arditi del popolo, del resto risulta già dallo stesso convegno di quest’ultimi, che si proclamavano fuori da tutti i partiti”.

Colto alla sprovvista dalla loro comparsa, ma propenso ad opporre forza alla forza, anche il Partito comunista decise di non appoggiare gli Arditi del popolo poiché, a detta del Comitato esecutivo, costituitisi su un obiettivo parziale e per giunta arretrato (la difesa proletaria), dunque, insufficientemente rivoluzionario. La difesa proletaria doveva realizzarsi esclusivamente all’interno di strutture controllate direttamente dal partito e gli Arditi del popolo – definiti infondatamente “avventurieri” e “nittiani” – dovevano considerarsi alla stregua di potenziali avversari.

Il 14 luglio del 1921, un comunicato dell’esecutivo del partito avvertiva i militanti, in sostanza, di non lasciarsi trasportare dalla foga della lotta antifascista, partecipando a iniziative esterne al partito comunista italiano; piuttosto li invitava a pazientare in attesa che venissero emanate disposizioni ufficiali circa l’inquadramento in gruppi comunisti:

“Poiché intanto – recita il comunicato – sorgono in diversi centri italiani iniziative di tal genere (di organizzazione e preparazione rivoluzionaria) da parte di elementi non dipendenti dal Partito Comunista e delle quali il Partito Comunista non è ufficialmente partecipe né responsabile, si avvertono tutti i compagni di restare in attesa di tali disposizioni, prima di creare fatti compiuti locali che ostino con le generali direttive adottate dal Partito”.

Nello stesso comunicato si sottolineava inoltre che:

“L’inquadramento militare rivoluzionario del proletariato deve essere a base di partito, strettamente collegato alla rete degli organi politici di partito; e quindi i comunisti non possono né devono partecipare ad iniziative di tal natura provenienti da altri partiti o comunque sorte al di fuori del loro partito. La preparazione e l’azione militare esigono una disciplina almeno pari a quella politica del Partito Comunista. Non si può obbedire a due distinte discipline”.

Il sette agosto un ulteriore comunicato dell’Esecutivo nazionale troncava ogni residuo dubbio circa i rapporti con l’Arditismo popolare, invitando i comunisti che ancora si trovavano nelle fila degli Arditi del Popolo ad uscirne immediatamente, per inquadrarsi solo nelle squadre comuniste. Il comunicato, reso necessario dalla disattenzione delle precedenti disposizioni, iniziava con un fermo richiamo alla disciplina di partito, rivolto a tutti i militanti che avevano partecipato, o addirittura organizzato, formazioni estranee al partito con esplicito richiamo agli Arditi del Popolo.

L’unica componente proletaria che sostenne apertamente l’arditismo popolare fu quella libertaria. Si trattava di un’area composita e numericamente consistente, al cui interno vi erano anime tra loro assai diverse. In ogni caso, sia l’Unione sindacale italiana che l’Unione anarchica italiana furono, per tutto il biennio 1921-22, sostanzialmente favorevoli alla struttura paramilitare di autodifesa popolare. A differenza delle varie organizzazioni della sinistra, gli anarchici, sia come movimento che come singoli individui sostennero ed affiancarono l’azione degli Arditi del popolo, o quantomeno, non mostrarono alcuna intenzione di ostacolarla.

Il contributo libertario alla lotta armata antifascista incontrò però ostacoli, innanzitutto nella frammentarietà, nella non-omogeneità del movimento anarchico e anarcosindacalista. Inoltre, il mantenimento di una propria specificità rivoluzionaria tenne lontani dall’immedesimazione con gli Arditi del popolo, movimento, quest’ultimo, al di là delle eventuali intenzioni rivoluzionarie dei singoli componenti, mirante esclusivamente ad arginare le violenze fasciste per ristabilire l’ordine democratico, senza contare poi, la diffidenza propria degli anarchici verso organizzazioni di stampo militare, come, appunto, quella dell’arditismo popolare.

A metà agosto del 1921, il consiglio generale dell’Unione Anarchica Italiana riunitosi a Roma, non mancò di criticare le forme militaresche ed accentratrici degli Arditi del popolo e di esprimere timori per le possibili influenze politiche su di essi, ma

“in sostanza […] tutti concordano nel considerare simpaticamente questo movimento che non può essere anarchico, ma neanche avversario degli anarchici finché non vi siano ragioni plausibili”.

All’unanimità venne approvata la seguente dichiarazione:

“il consiglio generale dell’UAI (adunato in Roma il 14-15 Agosto) senza entrare in merito all’organizzazione interna degli Arditi del popolo, che è indipendente ed autonoma di fronte a tutti i partiti, e quindi anche di fronte all’UAI, esprime la sua simpatia e riconoscenza per l’opera di difesa da essi compiuta a vantaggio delle libertà proletarie e popolari; ed augura loro di restare immuni da ogni infiltrazione di borghesi e di politicanti, sempre vigili in difesa della libertà e della giustizia”.

Questa attenzione rivolta al nuovo movimento, fu determinata anche dal fatto che esso appare la messa in pratica sul terreno militare della tattica del fronte unico, da tempo sostenuta dagli anarchici organizzati nell’UAI.
Per fronte unico gli anarchici intendevano un legame prettamente rivoluzionario, che sarebbe dovuto partire dal basso, a livello locale, fra individui anche appartenenti a partiti politici diversi, ma con un obiettivo minimo comune: dar vita ad un esercito proletario capace di “vincere le resistenze armate statali per poter organizzare la vita su basi che non siano quelle attuali”.

Gli Anarchici decisero di appoggiare gli Arditi del popolo sia a livello teorico sia prendendovi parte attiva, pur mantenendo la propria specificità. Non si riscontrarono pretese di monopolizzare tale movimento, come invece, in alcuni casi, erano emerse tra i comunisti. Al contrario, fu la reciproca autonomia, pur nella lotta contingente comune, a rimanere un punto fermo.

Decisioni che un anno prima erano state prese al congresso di Bologna, nel luglio 1920, che affidavano ai suoi militanti all’interno degli organismi unitari delle precise indicazioni:

“i gruppi anarchici, che sono rivoluzionari, devono fiancheggiare, facilitare, sussidiare con i propri mezzi l’opera degli specialisti gruppi d’azione, svolgere una propaganda che crei intorno a questi l’atmosfera più favorevole possibile, criticarne qualche errore eventuale in modo da non screditarne o ostacolarne l’attività in generale, svolgere la propria attività di partito, di critica e di polemica, in modo da evitare risentimenti, collere fra le varie fazioni operaie, ma orientarle tutte contro la borghesia e lo stato; essere a disposizione dei gruppi d’azione per aiutarli ogni volta che ve ne fosse necessità. A lotta iniziata, i gruppi anarchici parteciperanno all’azione perché questa azione si svolga quanto più rivoluzionariamente e liberamente è possibile, in modo da espropriare al più presto i capitalisti ed esautorare ogni governo vecchio o nuovo che sia”.

Secondo gli anarchici le condizioni materiali e morali dell’esistente vanno rovesciate tramite l’azione rivoluzionaria delle minoranze coscienti; compito degli anarchici è prendere parte a questa azione e in un secondo momento, cercare di impedire che si ricostituiscano forme di autorità e nuovi governi, per lasciare corso alla libera evoluzione della società, senza imposizioni di volontà particolari. Malatesta scrive:

“Se è ammesso il principio che l’anarchia non si fa per forza, senza la volontà cosciente delle masse, la rivoluzione non può essere fatta per attuare direttamente ed immediatamente l’anarchia, ma piuttosto per creare le condizioni che rendano possibile una rapida evoluzione verso l’anarchia”.

Dato che la rivoluzione non può essere immediatamente anarchica, perché le grandi masse non sono state ancora conquistate a questi ideali, il compito degli anarchici sarà dunque:

“cercare quello che di meglio si potrebbe fare in favore della causa anarchica in un rivolgimento sociale quale può avvenire nella realtà presente”.

Con gli arditi del popolo gli anarchici avrebbero potuto iniziare il cammino che, partendo dalla sconfitta del fascismo, sarebbe poi potuto andare oltre, intraprendendo la strada della rivoluzione sociale.

Il partito comunista, al contrario, sicuro dei suoi scopi e sostenuto da una fiduciosa visione dell’evolversi della storia, non concepì la rivoluzione se non come comunista e come instaurazione della dittatura del proletariato. Boicottò quindi l’azione degli arditi del popolo, deciso a non scendere a compromessi con le forze non perfettamente allineate al suo pensiero e alle sue direttive.

Per gli anarchici battersi contro il fascismo comporta inevitabilmente la lotta contro il primo responsabile delle sue violenze: il sistema politico ed economico capitalista.

Dopo l’allineamento di Gramsci e de “L’Ordine nuovo” alle direttive del partito, il quotidiano anarchico “Umanità Nova” rimane l’unica voce proletaria a perorare la causa degli Arditi del popolo, seguendo passo passo le vicende del nuovo movimento, pubblicando i loro manifesti ed appelli, dalla loro nascita fino alla morte dell’organizzazione antifascista nel 1922.

Andrea Staid

Note
1. Con il “Decreto legge per il disarmo dei cittadini”, tra le altre cose (revisione delle licenze di porto d’armi, sospensione di ogni beneficio previsto per i reati legati agli episodi di violenza politica, ecc.), si proibiscono esplicitamente le “passeggiate in forma militare con armi” e il porto, fuori della propria abitazione, di mazze ferrate, bastoni forniti di puntali acuminati, sfollagente di qualsiasi forma e dimensione (cfr. la circolare del 3 ottobre1921 ai prefetti del regno, in Archivio Centrale di Stato, Bonomi, 1921-22b.1, fasc. 4). Come ha osservato De Felice “I risultati politici di questi provvedimenti furono però assai scarsi. Il problema del fascismo non era più un problema di polizia”. (R. De Felice, Mussolini il fascista, p. 204).

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