Oggi alle violenze promosse dallo Stato e dai media si aggiunge una quota crescente di ipocrisia istituzionale e di negazione sistematica della violenza stessa.
Basta guardare la Lega Nord, sempre in equilibrio tra xenofobia nazistoide e sussiego governativo. Mentre l’ennesima strage di migranti in mare suscitava sdegno e proteste contro le leggi razziste del “Pacchetto sicurezza”, i militanti leghisti si divertivano con il gioco “Rimbalza il clandestino” dove si fanno sparire con un clic le barche di migranti. Vince chi riesce a “rimandare indietro” il maggior numero di persone. Se si vuol sapere come funziona la politica dei “respingimenti”, non bisogna ascoltare i Bossi, i Maroni o i Calderoli. A dire la verità è solo uno squallido videogioco.
Ma basta l’esempio di quei poliziotti che pestano i migranti o altri “irregolari” e poi, con ipocrisia più violenta delle botte stesse, li denunciano per “resistenza”. Succede un po’ ovunque: a Brescia, a Bologna…
Il metodo dell’ipocrisia vale in genere per tutte le aggressioni contro i “diversi”, per i femminicidi, gli stupri, i pestaggi omofobi. A Roma – ma le aggressioni contro gay e lesbiche sono tante – tal “Svastichella” ha tentato di uccidere un gay e subito un altro svastichello, il sindaco Alemanno, quello con al collo un simbolo delle SS, ha dato la sua solidarietà invocando sdegnato una legge antiomofobia. Che sia solo ipocrisia istituzionale lo dimostra il fatto che Alemanno, subito dopo, abbia scelto Stefano Andrini come nuovo amministratore delegato della società che smaltisce i rifiuti a Roma (un bel volume di affari). Ecco il curriculum di Andrini: una condanna a 4 anni e otto mesi per tentato omicidio, una militanza ventennale tra i naziskin romani, un’aggressione a colpi di spranga ai danni di due ragazzi finiti in ospedale e in coma, la convinta celebrazione nella città di Wunsiedel del delfino di Hitler Rudolf Hess… E intanto a Roma continuano gli attacchi omofobici: ieri sera sono state lanciate due bombe carta nella Gay Street di via San Giovanni Laterano.
L’ipocrisia e la negazione sono ormai il lubrificante che fa funzionare il tritacarne della violenza promossa dallo Stato. Su Macerie è apparsa al riguardo una testimonianza esemplare dall’interno del CIE di Ponte Galeria a Roma in data 30 agosto 2009:
«Quando sono entrato qui mi hanno detto che dovevo stare tranquillo, che qui ero libero… Ho visto la Croce Rossa e mi sono detto: “meno male, almeno non vedo la polizia intorno”. Invece mi sono sbagliato tanto, mi sono sbagliato tanto a pensare così…
La Croce Rossa mi ha dato un paio di ciabatte, un paio di lenzuola di carta di quelle che si usano sui treni, quelle usa e getta. Mi ha aperto un cancello e… lunghe sbarre, lunghe sbarre alte quattro metri. Tutto a sbarre. Avete presente gli zoo, come sono divisi gli animali? Una gabbia sono negri, una gabbia sono arabi, una gabbia sono del Bangladesh, una gabbia sono indiani, una gabbia sono europei… Da lontano ho visto i militari, e come girano intorno coi mezzi che usano lì in Afghanistan – armati! Subito mi sono reso conto che mi hanno detto una bugia, che non ero libero io: una persona chiusa in una gabbia 16 per 20 non può essere libera, non può essere libera!
Qui non c’è la vita, non si può vivere così: ci danno il vitto solo per tenerci in vita. Sapete come ci sentiamo, sapete come ci sentiamo noi? Persone sequestrate! Una cosa è sentirla – vedete, mi viene la pelle d’oca – e un’altra cosa è trovarsi solo cinque minuti in una gabbia… e no, due mesi, tre mesi, quattro mesi, cinque mesi, sei mesi… E intorno a noi girono militari che sono tornati dall’Afghanistan. Vigili urbani, Polizia, Finanza, Carabinieri, Polizia stradale, militari… tutte le divise abbiamo qua. E in più abbiamo la Croce Rossa: per me il nome della Croce Rossa è infangato, infamato!, perché sotto le divise della Croce Rossa si nascondono gli ex militari. E questo lo posso confermare davanti a tutti, anche davanti al Presidente della Repubblica.
Qui non è come fosse Guantanamo: è Guantanamo. È Guantanamo. È Guantanamo del signor Berlusconi, del signor Bossi, del signor Maroni, del signor Fini, del signor Casini e del signor Calderoli. Noi vogliamo che nostra voce si senta da qua a tutto il mondo come si è sentita per Guantanamo.Trasmettetela e ve ne saremo molto grati: le nostre sofferenze qua non si possono descrivere. Non si possono descrivere, non si possono descrivere…»
Ora è bene chiedersi se il tasso crescente di ipocrisia istituzionale sia un segno di forza o di debolezza. Certo, per chi subisce – solo, avvilito, segregato – l’ipocrisia è un segno di forza, è un’intimidazione, è una minaccia. È il sorriso sadico del poliziotto che sa che può distruggere impunemente delle vite a perdere. Ed è anche una strategia del potere per produrre una esigua fascia di devianza e di rabbia cieca che rafforzi il sistema e giustifichi le politiche della “sicurezza”.
Ma l’ipocrisia è sempre un segno di debolezza e bisogna costruire le pratiche collettive e solidali che sappiano smascherarla e contrastino fattivamente ogni forma di sfruttamento, autoritarismo e discriminazione.