Ripubblichiamo da “Umanità Nova”, n.8 del 1 marzo 2009, anno 89, il seguente articolo contro il revisionismo storico.
Paradosso e negazione
Supponiamo che due persone si trovino ad un bancone di un bar e che uno di questi stia discutendo con il barista a proposito della partita di calcio della squadra cittadina che si è svolta la domenica precedente. Il terzo sopraggiunto si inserisce nella discussione con i suoi commenti, i suoi pareri, magari diversi, a proposito di quanto è accaduto. Ciò che accomuna tutti e tre i presenti, cosa che non viene in alcun modo esplicitata, è che la partita si sia svolta realmente, che ad una data ora siano scesi in campo 22 giocatori, più un arbitro, più i guardialinee, i massaggiatori, le riserve, gli allenatori… e che siano stati presenti a quell’incontro un tot di paganti un tot di abbonati, magari un tot di “infiltrati”. E poi i giornalisti, le dirette televisive, le radiocronache… Ma anche quelli che, pur non assistendovi, ne hanno comunque subito le cause per l’aumento o il blocco del traffico, dei rumori, oppure degli scontri, delle vetrine rotte ed auto bruciate. Ebbene tutto ciò che comunemente chiamiamo prova o prove del fatto che un accadimento sia avvenuto. Questa premessa è necessaria per poter discutere, valutare, conoscere e quindi interpretare l’accaduto. L’ipotesi surreale sarebbe invece quella in cui il terzo convenuto, una volta inseritosi nel dibattito, negasse l’accadimento del fatto stesso. Tutto il dibattito intorno alla partita si sposterebbe su di un altro piano, ovvero la dimostrazione che la partita sia avvenuta e soltanto dopo, eventualmente, ci sarebbe una discussione sul merito. Una piccola accolita di storici, che si definiscono appunto negazionisti, sono partiti con il contestare l’esistenza di un accadimento: non l’esistenza dei campi di concentramento, non l’uccisione di ebrei ed altri in questi campi (in numeri di gran lunga inferiori), ma la realtà di un piano di sterminio preordinato da cui poi sono arrivati a determinare l’inesistenza delle camere a gas e della gasazione a scopi uccisori.
Potrei qui dilungarmi sulla fallacia delle loro tesi, ma vi rimando ad un testo (in realtà ve ne sono molti, ma questo come si usa dire “prende il toro per le corna”), fondamentale, sulla pessima ricerca che costoro normalmente conducono: Richard J. Evans, Negare le atrocità di Hitler, Sapere 2000 Edizioni multimediali, Roma 2003. Richard J. Evans è un noto storico anglosassone chiamato a difendere Deborah Lipstad ed il suo editore inglese, la Penguin Books, accusati di aver gettato discredito sulla reputazione dello storico negazionista David Irving.
Quello su cui invece vorrei soffermarmi sono le ragioni ideologiche che, a mio parere, hanno sostenuto e sostengono la galassia negazionista:
1. L’estrema destra neofascista e neonazista: la svalutazione politica della peculiarità dello sterminio olocaustico permetterebbe loro di equiparare, politicamente s’intende, diverse atrocità storiche avvenute o contemporaneamente o in tempi diversi: nazismo, stalinismo, stermini coloniali delle democrazie borghesi e quant’altro. La necessità di costruire un’equiparazione storica di tale tipo funziona allo stesso modo del famoso detto popolare, “tutti ladri, quindi nessun ladro”. Livellare, quindi, per loro significa non tanto svalutare la propria e le altre ideologie di morte, ma rivalutare, nel novero della legittimità alla pari, la propria alla pari delle altre culture politiche.
2. Una piccola parte dell’estrema sinistra di matrice “bordighiana”. Le ragioni da questa parte sono duplici. La prima è quella, figlia di una strettissima visione economicista del mondo, che nega l’esistenza delle camere a gas a partire dalla loro inefficacia “produttiva” e sposta il versante dello sfruttamento soltanto sul piano dell’uso schiavistico della manodopera concentrazionaria. La seconda è quella dell’invarianza nel giudizio di valore sulle forme di governo che il capitalismo si è dato: borghesia parlamentare o dittatura pari sono per costoro, perché sono appunto varianti esclusive del dominio capitalistico. Da qui ne consegue che, come disse Bordiga, “il peggior prodotto del fascismo è stato l’antifascismo”. La resistenza viene letta in questa chiave soltanto come un episodio di restaurazione capitalistica sotto altra forma.
3. L’antigiudaismo tanto storico quanto classico sia di gran parte del cattolicesimo e delle religioni cristiane che della religione islamica. I lefebvriani, tanto per fare un esempio di questi giorni, sono soltanto la punta di un iceberg molto più profondo.
La necessità di appurare i fatti nel loro svolgimento è questione essenziale per potere discutere di essi: la revisione è parte fondamentale del lavoro storico, ma a partire dai criteri di realtà di quanto affermato. Le prove documentarie (testi, ma anche foto, resti..) le testimonianze di coloro che sono sopravvissuti, ma anche dei carnefici, degli spettatori, dei complici passivi…sono strumenti indispensabili per il lavoro storiografico. La storia non si produce perché vi è qualcuno che “artificiosamente” scrive di essa: la conoscenza storica è essa stessa strumento di valutazione e di giudizio storico. Sulla comprensione storica possono esservi pareri e risposte differenziate, suffragate da un poderoso arsenale documentario, ma a partire dalla comune condivisione che un accadimento sia realmente avvenuto e nel nostro caso si può partire a discutere soltanto ammettendo, non certo perché lo vogliamo ideologicamente, ma perché le fonti testimoniali di vario genere (anche se questo non significa necessariamente che concordino sui numeri, sui tempi…, ma questo fa parte del dibattito storiografico) convergono sull’esistenza della camere a gas come strumento di sterminio di massa.
Un’ultima nota a questa rassegna di posizioni ideologiche, ovvero quella che attiene all’annosa questione della libertà di espressione. Molte legislazioni europee si sono attestate sulla repressione sia espressiva che carceraria del fenomeno negazionista. Dal momento che in quanto anarchici non siamo dispensatori di libertà né per noi stessi né per altri, perché non abbiamo né vogliamo avere velleità governative, la questione così posta potrebbe non avere alcun interesse se non nei limiti delle illibertà degli stati appunto liberali. Ma perché tanto ci è cara la libertà che sempre più viene dispensata come concessione di pochi ai più, ci è altrettanto caro il fatto che chiunque possa dire apertamente ciò che pensa. La battaglia si sposta quindi dal piano legale a quello politico, ed in questo caso storico: la storia, come hanno già sostenuto altri, si combatte con la storia.
Pietro Stara