Manifesto dell’antisessismo nei luoghi misti antifascisti


Ripubblichiamo da “Umanità Nova” n. 19 del 17 maggio 2009 la traduzione abbreviata di un “Manifesto dell’antisessismo nei luoghi misti antifascisti” scritto in Germania negli anni Novanta. Poiché il testo stesso ci invita a farlo, abbiamo cambiato e aggiunto qualcosa e invitiamo chi legge a riprendere e trasformare il testo o a usare i commenti per proporre correzioni e/o ampliamenti.

Manifesto dell’antisessismo nei luoghi misti antifascisti

Questa bozza è aperta e imperfetta. Ognuno può riscriverla e migliorarla a suo modo. Perché su questo problema non abbiamo parole definitive.

Essere antifascisti vuol dire contrastare organizzazioni e ideologie autoritarie ben differenti e individuate: qualcosa di esterno, di estraneo, di ostile, con pratiche squadriste di aggressione violenta e una cultura della gerarchia, della norma e dell’intolleranza.

Nel caso dell’antisessismo in luoghi misti, invece, l’azione di contrasto non può che rivolgersi sia all’esterno che all’interno. Ognuno di noi cresce e si forma in una società che ha modellato per secoli l’identità sessuale in senso autoritario attraverso pratiche molteplici di subordinazione della donna all’uomo. È uno degli strati più arcaici dello sfruttamento e della disparità tra esseri umani e proprio per questo mette in gioco radicalmente la persona, i suoi comportamenti, la sua quotidianità, il suo linguaggio. Ognuno di noi cresce e si forma in una società che diffonde a piene mani discriminazione di genere, nelle parole, nelle immagini, nei gesti, nelle allusioni, a scuola, sul lavoro. Nessuno se ne libera se non attraverso un percorso critico e una continua sperimentazione di sé.

Proprio per questo la soggettività antifascista, abituata a contrastare la violenza sociale come elemento esterno e separato da sé, deve guardarsi dal non mettersi in discussione e problematizzare costantemente le proprie pratiche di ogni giorno. Anche sul versante della vita quotidiana e dei rapporti fra i generi.

Non tocca a noi dare una definizione astratta del sessismo. Ci compete invece coltivare una consapevolezza di fondo: ogni uomo eterosessuale è potenzialmente uno stupratore. Per secoli la sessualità europea è stata disciplinata mettendo al centro l’uomo, i suoi bisogni, le sue pretese, il suo senso autoritario di possesso. Non ci si libera da processi secolari – che hanno modellato profondamente persino il linguaggio – in cinque minuti dichiarandosi sbrigativamente «antisessisti».

Nei luoghi misti il discorso antisessista – se vissuto superficialmente – non solo non scalfisce il problema, ma lo nasconde attraverso l’autoassoluzione maschile e il meccanismo psicologico dell’esorcizzazione: il maschio che condanna il «sessista» rischia di proiettare al di fuori e rimuovere qualcosa che forse lo riguarda da vicino. In tal modo si resta disarmati e acritici di fronte a se stessi. Occorre allora ragionare collettivamente e scomporre la fenomenologia culturale del sessismo cercando di attivare pratiche di contrasto diversificate:

1. Stereotipi sessisti. L’uso di stereotipi sessisti può essere il residuo più o meno consapevole di un’educazione o il riflesso dell’immaginario sociale sessista. Lasciar correre significa avvallare espressioni discriminatorie. Isolare, escludere o denigrare alle spalle la persona che ne fa uso vuol dire impedirle di prendere piena coscienza del suo chiuso orizzonte mentale. Tra la complicità e il pettegolezzo occorre invece perseguire la strada della critica ragionata. Oggi le aree antagoniste danno spesso per scontato le proprie idee e non c’è più abitudine ad argomentare le proprie ragioni e a tradurle in un discorso che non sia rituale. Ogni discorso autentico include dei rischi. Si espone alla critica altrui. A questo livello, la parola è l’unico strumento che abbiamo.

Argomenta giustamente Tiresia in un breviario sul Bon Ton dell’antifascista:

«Un antifascista che si rispetti deve scegliere accuratamente il linguaggio che adopera. Deve fare attenzione a calibrare il registro sulle persone che ha di fronte: per i nemici sono consigliati insulti, offese, ingiurie. La lingua italiana ne permette un vasto uso, anche di regionalismi. Il problema che si deve porre l’antifascista rispettoso e beneducato è se la parola che sta usando sia o meno un insulto. Facciamo un esempio: “La ministra Gelmini è una puttana”. Puttana è un’operatrice del sesso, è colei che vende le sue prestazioni sessuali per professione. In ciò l’antifascista rispettoso non dovrebbe vedere un insulto, questa frase dovrebbe avere lo stesso potere offensivo di, ad esempio, “La ministra Gelmini è una fruttivendola” o “La ministra Gelmini è un’hostess”. Quindi è consigliato evitare tutta quella gamma di espressioni che usano una professione come insulto. Un’altra cura che deve avere l’antifascista consapevole è rendersi conto che le pratiche sessuali e gli orientamenti non costituiscono un’offesa. Dire che “La ministra Carfagna è una troia” perché si ritiene che abbia una vita sessuale particolarmente attiva non è carino; il fatto che usi il suo corpo per fare carriera è un altro discorso, è colpa del clientelismo berlusconiano e non riguarda il bon ton dell’antifascista. La vita sessuale dei nemici non ci deve interessare. Quindi fate attenzione a non usare, come insulto, termini quali troia, baldracca, rottinculo, piglianculo, succhiacazzi, ricchione e via dicendo».

2. Pregiudizi sessisti. Vi sono stereotipi che derivano da pregiudizi sessisti. Proprio la capacità di criticare in modo argomentato gli stereotipi è un modo per far emergere i pregiudizi sessisti. È un avvio per fare inchiesta e autoinchiesta sul pregiudizio, sull’ovvietà, sul non detto: ciò che Virginia Woolf chiama «the hypnotic power of dominance» [«il potere ipnotico del dominio»].

3. Violenza sessista a qualsiasi livello. Come in ogni ambito di lotta, si tratta di non sostituire un soggetto astratto ai corpi e ai generi che subiscono violenza. I luoghi misti non possono che essere aperti e ricettivi rispetto alle istanze che vengono da persone violate o da gruppi specifici. E ricettivi vuol dire avere la prontezza di agire in modo adeguato ed esercitare l’intelligenza collettiva ad essere sensibili al problema nelle sue più diverse forme.

Questo testo vuol essere un atto di solidarietà, magari incompleto e impreciso, verso tutt* coloro che hanno subito e subiscono violenza sessista.

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