Per un antifascismo femminista


Ripubblichiamo da “Umanità Nova”, n.8 del 1 marzo 2009, anno 89, il seguente articolo su femminismo e antifascismo.

Un discorso quanto mai attuale se – contemporaneamente – a Bologna CasaPound lancia il taxi rosa e a Palermo, sui muri del centro sociale ove ha sede il collettivo femminista Malefimmine, i fascisti del terzo millennio tracciano la scritta “collettivo Maletroie” firmata CasaPound e, nei giorni precedenti, anche “compagna quando ce vedi te se bagna”…

Né peraltro si tratta di ascrivere il sessismo solo ad altri. Noi crediamo che la soggettività antifascista, abituata a contrastare la violenza autoritaria come elemento esterno e separato da sé, deve guardarsi dal non mettersi in discussione e problematizzare costantemente le proprie pratiche di ogni giorno. Anche sul versante della vita quotidiana e dei rapporti fra i generi.


Per un antifascismo femminista

Ha senso parlare di femminismo antifascista? Probabilmente no, a meno di non voler specificare una delle “qualità” della critica di genere ai soggetti dell’oppressione. Invece è forse utile specificarne l’attualità, soprattutto se capita di leggere, su quotidiani o riviste patinate, improbabili riferimenti a mai esistiti ed esistenti “femminismi di destra”, legati ad alcune passate e presenti organizzazioni neofasciste. Un’operazione, quest’ultima, certamente definibile più correttamente come il tentativo di utilizzare strumentalmente il punto di vista “delle donne” e le camerate stesse come manovalanza per raggiungere elettorati femminili e consegnare loro il cappio con il quale impiccarsi.

Sostenere che il femminismo non può non essere antifascista serve quindi a ribadire un fatto storico, l’oppressione del regime mussoliniano nei confronti delle donne, ed anche uno teorico, dato che se il patriarcato non nasce con il fascismo né può essere considerato un suo sinonimo, al contempo niente è meglio di un’ideologia autoritaria perché si confermi e consolidi.

Ogni giorno è sempre più evidente quanto cresca l’offensiva culturale della destra razzista, autoritaria e fascista, sferrata dai tricolorati partiti istituzionali di centrodestra e partiti extraistituzionali palesemente neofascisti. Sembra non trovare argini, si rafforza proporzionalmente all’incapacità di resistenza dei partiti “tradizionalmente” di sinistra, quando non addirittura alla complicità o obliquità dei partiti del centrosinistra parlamentare. Si fa fatica a star dietro e a comprenderne le metamorfosi, le scissioni, le alleanze dentro e fuori il loro ambito militante.

Spesso è assai difficile riuscire a definire, ad esempio, se ci riferiamo prima ad un integralismo cattolico fascista o ad un fascismo cattolico, mentre la soluzione è assai più complicata e le distinzioni occorre farle. Gli storici più capaci ed attenti hanno sempre sottolineato quanto il neofascismo sia storicamente ricco di tendenze, critiche o di adesione, ai segmenti del tradizionalismo cattolico e a-cattolico. Esistono neofascismi anticlericali, cattolici conciliaristi, con sfumature lefebvriane, amanti mistici di Codreanu, moderni adepti del differenzialismo spiritualista evoliano (ma non meno razzista, né in contraddizione con quello biologista degli amici nazisti)…

Una lunga lista tenuta assieme saldamente dai criteri Dio, Patria e Famiglia, con la variante Tradizione, Patria e Famiglia o Ordine, Patria e Famiglia o Natura, Patria e Famiglia per i cugini più affezionati alla memoria sansepolcrista anticlericale. Ciò che mai cambia per il neofascismo, mistico o cattolico, è che la donna è “differente” dall’uomo e deve per questo “stare al suo posto”: che sia diversa spiritualmente, naturalmente o perché lo ha deciso Dio, e il Papa lo ratifichi tre volte al giorno dopo i pasti principali, poco cambia. Da un punto di vista meramente filosofico, i dualismi differenzialistici (uomo/donna) impediscono ogni “meticciato” o “ibridismo”, impediscono la libertà e il mutamento. In parole più semplici, impediscono ai corpi di autodeterminarsi, cambiare, come i soggetti in transizione dal maschile al femminile e viceversa, impediscono alle donne di decostruire un’identità consegnata dall’uomo come sua “differente opposizione”, negativo di un maschile al quale si avrà pur sempre bisogno di appellarsi per definirsi, del quale non ci libereremo mai. Impediscono infine la possibilità dell’omosessualità maschile e del lesbismo, ritenute come “devianze” dal dualismo naturale uomo-donna.

Per concludere, o forse per cominciare, occorrerà semmai chiedersi se possa esistere un antifascismo che non sia sessista e omofobo. Fino a quando ci sarà bisogno di aggiungere queste “qualità” alla teoria e alla pratica antifascista, la domanda resterà sospesa in attesa di una reale ed autentica risposta affermativa.

Aurelia Benco

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